In un momento drammatico in cui si moltiplicano gli scenari di guerra – e a Gaza sono soprattutto i bambini e i giovani a pagarne le più dure conseguenze – abbiamo pensato che fosse importante tornare a parlare di adolescenza, l’età del cambiamento più dirompente, dello sviluppo, delle possibilità e insieme, proprio per questo, età di crisi.
Una stagione della vita impossibile da vivere nei territori di guerra, come a Gaza, dove i più giovani, se scampano le bombe di Netanyahu, diventano target dell’esercito israeliano. Difficile da vivere in Iran dove il regime teocratico impicca i sostenitori del movimento Donna vita libertà, mentre Netanyahu e Trump li bombardano.
Da noi in Italia chi si è alzato per primo in piedi contro il genocidio in atto a Gaza sono stati proprio i giovanissimi. Ma sono stati manganellati dalle forze dell’ordine e tacciati di antisemitismo. Per fortuna qui da noi gli adolescenti non rischiano la vita, non sono sotto le bombe come i loro coetanei con i quali solidarizzano con grande sensibilità. Nonostante ciò non potremmo dire che abbiano la vita facile, come invece viene detto da politici, ex ministri e “intellettuali”, che li descrivono come bamboccioni o sdraiati sul divano. In un Paese come l’Italia dove gli over 65 hanno superato di gran lunga i diciottenni, dove la gerontocrazia impera, sui media mainstream si parla di adolescenti quasi esclusivamente quando accade un fatto tragico: un suicidio, un’aggressione di una baby gang, un femminicidio. I titoli si rincorrono tra allarmi e giudizi, parlano di crisi educativa, dipendenza da smartphone, perdita di valori. Ma raramente ci si ferma ad ascoltare davvero cosa accade nelle vite quotidiane di milioni di ragazze e ragazzi. Raramente si restituisce spazio alla loro complessità.
Con questo numero di Left torniamo a farlo affidandoci sia ai massimi esperti di indagine demografica e sociologica, sia a psichiatri e psicoterapeuti che hanno una lunga e valida esperienza con gli adolescenti, nelle scuole e nei gruppi di terapia. Contrariamente alle reprimende e ai provvedimenti all’olio di ricino del ministro dell’Istruzione e del merito Valditara che ha ripristinato il voto in condotta come giudizio morale, l’adolescenza non è un “problema da correggere”, ma un tempo cruciale della vita umana, di emozioni a mille, di crisi trasformativa, di sviluppo fisico e psichico, di cotte spaziali, di ricerca di identità, di scoperta della sessualità. Un periodo dunque pieno di cambiamenti, di nuove possibilità, ma anche di vulnerabilità come emerge dalle testimonianze raccolte da Lorenzo Fargnoli nel suo articolo. Secondo l’Oms, come ci ricorda la psicoterapeuta Arianna Grimaldi, l’adolescenza va dai 10 ai 19 anni, ma sempre più esperti propongono di estendere la soglia fino ai 24, riconoscendo che tappe come l’autonomia economica, il lavoro o la genitorialità in Occidente si sono spostate in avanti.
Oggi nel mondo ci sono oltre 1,3 miliardi di adolescenti: una quota in crescita, che potrebbe rappresentare – secondo la Lancet Commission on Adolescent Health – «la più grande opportunità per il futuro dell’umanità». Ma solo se ascoltata, sostenuta, rispettata. Purtroppo in tante parti del mondo non accade. E con tutta evidenza non accade neanche in Italia nonostante la retorica meloniana sulla maternità. Il suo governo ha partorito il decreto Caivano che tratta problemi sociali alla stregua di problemi di ordine pubblico. Il risultato? È aumentato enormemente il numero dei minori che finiscono in carcere, luogo per eccellenza criminogeno. Intanto l’avvocata Buongiorno (Lega) torna a proporre di abbassare l’imputabilità a 12 anni. Il Decreto sicurezza prevede anni di carcere per i giovani attivisti che denunciano con azioni nonviolente i rischi del climate change. Li chiamano eco-vandali e li condannano senza appello, quando tutti dovremmo essere loro grati per l’impegno. In questo contesto così ostile ci siamo chiesti: come stanno davvero i ragazzi?
Cosa chiedono? I dati delle indagini sociologiche ci dicono di una generazione che si scopre sola, stretta tra pressioni sociali, precarietà e forte competizione. L’Oms segnala che il suicidio è oggi la prima causa di morte tra i 15 e i 19 anni. Ansia, depressione, attacchi di panico, autolesionismo e disturbi del comportamento alimentare crescono anche tra gli under 16. Come osserva lo psichiatra Beniamino Gigli, chi lavora nei servizi territoriali incontra sempre più spesso «genitori in fila per la presa in carico di figli violenti, depressi, isolati». Ma come accennavamo la risposta politico istituzionale sembra andare in direzione opposta: non prevenire, ma reprimere. Non comprendere, ma punire.
A scuola si parla sempre più spesso di divieti, sanzioni, misure disciplinari. Vedi anche l’ultima circolare ministeriale che vieta l’uso degli smartphone nelle scuole superiori, estendendo un provvedimento già attivo nei gradi precedenti. Misura che si vuole “educativa”, ma che in realtà rischia di colpire il sintomo e non la causa. Perché, vietare lo smartphone non aiuta a capire come mai un adolescente vi si rifugia. Non affronta la solitudine, l’insicurezza, la mancanza di riconoscimento. Il rischio è di ridurre la crisi adolescenziale a una questione di cattiva condotta. Rinunciando a ogni lettura affettiva, relazionale, psicologica. Ma è proprio lì che occorre guardare.
Come segnala Francesca Fagioli, psichiatra e psicoterapeuta con oltre vent’anni di esperienza anche negli sportelli scolastici, c’è un importante cambiamento culturale in atto: «Gli adolescenti chiedono di parlare di salute mentale, vogliono capire il perché ci si ammala nel pensiero e negli affetti e vogliono affrontare i loro eventuali problemi psicologici senza paura. Non c’è più vergogna, anzi: cercare un colloquio è spesso un segno di consapevolezza, di forza». Il problema semmai sono gli adulti, che, osserva Fagioli, sono sempre più riluttanti a mettersi in discussione. Preferiscono etichettare, generalizzare, marginalizzare. E proprio nella marginalizzazione si annidano le derive più drammatiche. Il pensiero corre a Martina Carbonaro, uccisa a 14 anni ad Afragola dal suo ex fidanzato di 19. Come scrive Maria Gabriella Gatti, «non si tratta di un delitto individuale, ma di un fenomeno strutturale». Il femminicidio non nasce da un raptus, ma da una cultura patriarcale ancora profondamente radicata, talora, anche nei giovanissimi. Una cultura che non riconosce piena soggettività alle donne, e che educa alla relazione come controllo e dominio. Una cultura che, troppo spesso, trova appoggio nei silenzi della scuola, della famiglia, dei media.
È quindi più che mai urgente ripartire dall’ascolto dei ragazzi. Non servono programmi disciplinari basati sull’educazione affettiva, intesa come formula standardizzata, ma una scuola attenta al benessere e alla realtà psichica degli studenti. Che comprenda – come sottolinea la psicoterapeuta – che il disagio non nasce da un deficit di controllo razionale, ma da relazioni interrotte, affetti negati, immagini di sé e dell’altro impoverite o distorte. Come quelle proposte anche dalla serie tv Adolescence, che racconta un femminicidio come se fosse il ritratto di un’intera generazione. «Un’operazione dannosa», scrive Grimaldi, che confonde una gravissima patologia con la normalità. Non per questo vanno sottovalutati gli episodi di severa ansia, autolesionismo ecc. In tutti i casi serve una risposta terapeutica valida, scientificamente fondata e accessibile a tutti. Una risposta di psicoterapia per la cura e la guarigione, che è tanto più possibile se si interviene precocemente. Serve una proposta valida di prevenzione, sostenendo le istanze dei tanti ragazzi che si interrogano, che protestano, che chiedono giustizia, che riempiono le piazze per il clima, contro la guerra, per la libertà. Non dobbiamo “dare voce” agli adolescenti, ma riconoscere quella che già hanno. I giovani sono i costruttori del futuro. Ma per farlo hanno bisogno di non essere invisibili ai nostri occhi.
Illustrazione di Chiara Melchionna